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Avviso di Presa in Carico. Azione del contribuente e legittimazione passiva

 

ABSTRACT

Il legislatore ha previsto che dopo la notifica dell’avviso di accertamento (ormai atto impoesattivo), l’Agenzia delle Entrate affida all’Agente della Riscossione l’avvio dell’attività di riscossione delle somme richieste con l’accertamento. L’esattore con raccomandata semplice o posta elettronica, informa il debitore con il cd avviso di presa in carico di avere ricevuto l’incarico di riscuotere le somme riportate nell’avviso di accertamento, configurandosi come un sollecito al pagamento. Nel caso di inesistenza o invalidità della notifica dell’atto impoesattivo, il contribuente può intraprendere la propria azione, riconosciuta dalla più recente giurisprudenza di legittimità, impugnando cumulativamente l’avviso di presa in carico con l’avviso di accertamento, evocando in giudizio, a scelta, l’agenzia delle entrate o l’esattore. In quest’ultimo caso, è onere dell’agente della riscossione integrare il giudizio, attraverso il litisconsorzio facoltativo successivo, evocando in giudizio l’Agenzia delle Entrate per il rapporto di responsabilità intercorrente con quest’ultima.  

L’Azione del contribuente e la legittimazione processuale                                 

L’avviso di presa in carico quando costituisce il primo atto con il quale viene comunicato al contribuente l’esistenza della pretesa tributaria scaturente da un avviso di accertamento (atto impoesattivo) non validamente notificato o per il quale manchi la notifica, può essere impugnato cumulativamente all’atto presupposto. La recente giurisprudenza della Corte di Cassazione[1], consolidando un principio ormai granitico, ha stabilito che riguardo agli atti impugnabili, l’elenco contenuto nell’art. 19, comma 1, del D.Lgs. 546/1992, non è da considerare tassativo, rappresentando un mero index nominum, inadatto a garantire l’effettività dell’ordinamento e non più coerente e rappresentativo della categoria degli atti amministrativi tributari, che si è venuta arricchendo di nuove figure, perdendo così l’allineamento tra profili sostanziali e processuali. Pertanto secondo quanto indicato dalla Suprema Corte, gli atti che dall’elenco sono esclusi possono essere ritenuti impugnabili solo quando siano concretamente lesivi in relazione agli effetti giuridici che essi producono. L’Avviso di presa in carico secondo la Corte Suprema non rientrando tra gli atti amministrativi di natura provvedimentale, capace di incidere autoritativamente sulle situazioni giuridiche soggettive dei contribuenti non rientrerebbe tra gli atti autonomamente impugnabili, salvo nel caso in cui costituisce la prima comunicazione a mezzo della quale si palesi l’esistenza di un atto tributario di natura provvedimentale, quale ad esempio l’accertamento impoesattivo. In quest’ultimo caso, la Suprema Corte ne ammette l’impugnazione, purché sia cumulativa, ovverosia nel caso in cui venga impugnato ex art.19, comma 3, del D.Lgs. 546/1992, l’avviso di presa in carico e l’avviso di accertamento che non sia stato notificato o che sia stato invalidamente notificato. Definito l’ambito di applicabilità degli atti impugnabili secondo quanto indicato dall’art. 19 del D.Lgs. 546/92 e le condizioni per poter impugnare l’avviso di presa in carico, resta da definire il soggetto legittimato a cui può essere proposta l’impugnazione e pertanto se il contribuente procede all’impugnazione dell’avviso di presa in carico (cumulativamente all’avviso di accertamento invalidamente notificato), può limitarsi ad evocare in giudizio soltanto l’esattore. Stando a quanto disposto dall’art. 10, del D.Lgs. 546/1992, l’Agente della Riscossione è parte naturale del giudizio in quanto soggetto che ha emesso l’atto. Invero, sono parti del giudizio tributario oltre al ricorrente, l’Agenzia delle Entrate, l’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, l’Agenzia delle Entrate Riscossione, oltre agli altri enti impositori o agenti della riscossione iscritti nell’apposito albo di cui all’art. 53, del D.Lgs. n. 446/1997 che hanno emesso l’atto impugnato o non hanno emesso l’atto richiesto[2].  L’art. 10 cit., in relazione al processo tributario, definisce la parte attiva secondo l’accezione di cui al codice di procedura civile, richiamando genericamente la figura del ricorrente ossia la parte che propone la domanda, introducendo altresì la nozione di parte legittimata in senso sostanziale rispetto alla parte resistente, individuata nell’ufficio o ente che ha emesso l’atto impugnato o non ha emesso l’atto richiesto (silenzio rifiuto). Secondo un’interpretazione letterale dell’art.10 cit., legittimato passivo è il soggetto che “ha emesso l’atto” notificato al contribuente[3]. Parte della giurisprudenza di legittimità[4], intervenendo sulla legittimazione processuale dell’esattore, ha ribadito il principio secondo cui la circostanza che la domanda abbia ad oggetto l’esistenza del credito, anziché la regolarità o validità degli atti esecutivi, dal momento che non sia configurabile alcun litisconsorzio necessario tra ente creditore e l’esattore, allorquando il ricorso venga proposto contro l’esattore, non impone l’indispensabile partecipazione nel giudizio dell’ente impositore. In ordine all’ambito di applicazione dell’art. 10, del D.Lgs. 546/92, ha affermato che l’impugnazione debba essere rivolta esclusivamente nei confronti dell’esattore per gli errori ad esso direttamente imputabili e cioè per i vizi propri dell’atto, ammettendo però che l’erronea individuazione del legittimato passivo non determina l’inammissibilità della domanda. Dacché si configura la posizione processuale dell’Agente della Riscossione come adiectus solutionis causa, ovvero come soggetto autorizzato dalla legge a riscuotere il pagamento su incarico dell’ente creditore delle somme iscritte a ruolo, mutuando lo schema previsto dall’art. 1188 c.c. Pertanto, nel caso in cui il contribuente propone l’azione contro l’Agente della Riscossione, contestando la pretesa tributaria, a mezzo dell’impugnazione dell’atto successivo (rectius avviso di presa in carico), o di altro atto elencato nell’art. 19, comma 1, del D.Lgs. 546/1992, l’esattore dovrà limitarsi a chiamare in causa l’ente titolare del credito su cui incomberà l’onere della prova, al fine di poter superare le doglianze poste dal ricorrente. Secondo altra impostazione condivisa dalla prevalente dottrina, a prescindere dai motivi per cui si impugna un atto emesso dall’esattore, ritiene che la legittimazione passiva dell’Agente della Riscossione, non può essere messa in dubbio in quanto ha comunque emesso l’atto che si intende impugnare e nel caso in cui il contribuente contesti anche irregolarità che non riguardano l’attività dell’Agente della Riscossione, questi può chiamare in causa l’ente creditore ai sensi dell’art. 39 del D.Lgs. 112/1999, in forza del quale “il concessionario, nelle liti promosse contro di lui che non riguardano esclusivamente la regolarità e la validità degli atti esecutivi, deve chiamare in causa l’ente creditore interessato; in mancanza, risponde delle conseguenze della liti”[5]. La stessa Suprema Corte[6], ha stabilito il principio secondo il quale il ricorso non può essere dichiarato inammissibile se il contribuente, in sede di impugnazione contro la cartella di pagamento, abbia citato in giudizio il solo Agente della Riscossione avendo eccepito, quale censura, l’omessa notifica dell’atto presupposto; in tal caso, l’Agente della riscossione, se non vuole rispondere delle conseguenze della lite, ha l’onere di chiamare in causa l’ente creditore interessato. Del resto, sull’azione del contribuente, si è formata ormai una consolidata giurisprudenza di legittimità[7], ammettendo la possibilità di impugnazione di un atto emesso dal concessionario della riscossione sia per motivi che attengono alla mancata notificazione, che agli atti impositivi presupposti ed il contribuente può agire indifferentemente secondo la propria scelta nei confronti del concessionario o dell’ente impositore, senza che sia tra i due soggetti configurabile alcun litisconsorzio necessario. In entrambi i casi, la legittimazione passiva spetta all’ente titolare del credito tributario e non già al concessionario, il quale, in presenza di contestazioni involgenti il merito della pretesa impositiva, ha l’onere motu proprio di chiamare in giudizio il predetto ente, ai sensi dell’art. 39, del  D.Lgs. n. 112 del 1999,  se non vuole rispondere dell’esito della lite, non essendo il giudice tenuto a disporre d’ufficio l’integrazione del contraddittorio, in quanto non è configurabile un litisconsorzio necessario[8]. La chiamata in causa ha natura meramente sostanziale e non necessita di alcuna autorizzazione da parte del giudice adito, né quest’ultimo sarà tenuto a disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’ente pretermesso ex art. 14, comma 1 e 2, del D.Lgs. 546/1992[9]. Sulla scorta di tale principio di diritto si è adeguata anche l’Agenzia delle Entrate, la quale con la Circolare n. 12/E del 12 aprile 2012, al paragrafo 1.2, ha avuto modo di confermare che nel caso in cui il ricorrente evochi in giudizio esclusivamente l’Agente della riscossione, eccependo anche – o solo – vizi riferibili all’attività dell’Ufficio, è onere dell’Agente effettuare la chiamata in causa dell’Ufficio, richiamando sempre lo stesso disposto dell’articolo 39, del decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112. Per completezza si ritiene opportuno in questa sede perché spesso oggetto di distorte interpretazioni da parte di alcuni giudici di merito, chiarire come affermato sempre più dai giudici delle leggi, formando ormai ius receptum, che nei rapporti tra Agente della Riscossione e Agenzia delle Entrate non si configura alcun litisconsorzio necessario e pertanto il contribuente che impugna un atto emesso dal riscossore anche per questioni che riguardano l’ente creditore, può limitarsi a chiamare in causa soltanto l’agente della riscossione, senza la necessità di dover coinvolgere anche l’ente creditore. E’ noto che il litisconsorzio può essere necessario, ovvero quando la causa in virtù del carattere inscindibile della controversia deve essere necessariamente instaurata contro più parti[10] e, facoltativo quando il giudizio può svolgersi con la presenza di più parti. L’art. 14 del D.Lgs. 546/1992 (rubricato litisconsorzio e intervento) reca tanto la disciplina del litisconsorzio necessario, quanto quella del litisconsorzio facoltativo e da un’interpretazione sistematica della norma, sebbene il comma 3° non brilli per chiarezza riguardo alla possibilità dell’intervento volontario dell’ente creditore, si può affermare che l’articolo 14 cit. si riferisce unicamente alla parte privata e non anche ai soggetti pubblici del rapporto tributario controverso[11]. Pertanto ci si troverà di fronte ad un’ipotesi di litisconsorzio necessario ogniqualvolta la fattispecie costitutiva dell’obbligazione, rappresentata dall’atto autoritativo impugnato, presenti elementi comuni ad una pluralità di soggetti. Anche nel caso di litisconsorzio facoltativo originario (art. 14, comma 3), ci induce a ritenere che si riferisca sempre alle parti private giacché nel testo del comma 3, si fa riferimento letteralmente ai soggetti destinatari dell’atto assieme al ricorrente.

Volendo pertanto definire il rapporto tra l’Agente della riscossione ed Ente creditore nel giudizio, si può ritenere che tra essi può configurarsi un litisconsorzio facoltativo successivo, al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 14 del D,Lgs. 546/1992, in quanto tale ipotesi non sussiste nell’oggetto del processo, ma sopravviene al mero comportamento del contribuente (il quale legittimamente potrà indirizzare il proprio ricorso solo nei confronti dell’esattore) ed è soprattutto affermata dall’esigenza dell’agente della riscossione di chiamare in causa, motu proprio, l’Amministrazione finanziaria proprio per il rapporto di responsabilità intercorrente con quest’ultima. Sicché, è solo al verificarsi di tali eventualità che si instaura una ipotesi di litisconsorzio facoltativo, appunto sopravvenuta, non sussistente ab origine, ma soggiacente precipuamente all’onere-interesse incombente in capo all’agente della riscossione di integrare il contraddittorio, evocando in giudizio l’ente titolare del diritto di credito. In conclusione si può affermare che nel caso di omessa o irregolare notifica dell’avviso di accertamento esecutivo, l’impugnazione cumulativa dell’avviso di presa in carico e dell’atto presupposto, può essere proposta indifferentemente sia all’ente creditore, che all’Agente delle Riscossione e sarà onere di quest’ultimo, al fine di non incorrere nelle responsabilità di cui all’art. 39, del D.Lgs. 112/1999, di chiamare in causa l’ente creditore.

Conclusioni                                                                                                      

Con la concentrazione in un unico atto, sia dell’accertamento che della riscossione, assumendo così anche valore di titolo esecutivo e di precetto, ove quest’ultimo non sia stato regolarmente notificato o assolutamente mai notificato, assume rilievo giuridico l’atto successivo, ovverosia l’avviso di presa in carico notificato dall’Agente della Riscossione. Il contribuente può effettuare la propria azione a scelta, sia nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, quale ente creditore, che nei confronti dell’Agente della Riscossione e in quest’ultimo caso sarà onere dell’esattore, chiamare in causa l’ente creditore titolare del diritto di credito evocandolo in giudizio, per il rapporto di responsabilità intercorrente con quest’ultimo. Ne consegue che, solo al verificarsi di tale eventualità che si instaura una ipotesi di litisconsorzio facoltativo sopravvenuta, correlato all’interesse che incombe in capo all’agente della riscossione di integrare il contraddittorio, evocando in giudizio l’ente titolare del diritto di credito, al fine di non incorrere nella responsabilità di cui all’art. 39, del D.Lgs. 112/1999.


[1] Cassazione sentenza n. 21254 del 28 aprile 2023

[2] Art. 10 D.Lgs. 546/1992

[3] Cass. Ord. 02 luglio 2020, n. 13633

[4] Corte di Cassazione Ordinanza n. 2325del 25.01.2023

[5] GLENDI Cesare, Postilla, in GT Rivista di giurisprudenza tributaria n. 10/2008, 910, “questa norma, solitamente ignorata ma di risalenti nobilissime ascendenze, è di cruciale importanza al fine di sciogliere i nodi problematici che ruotano sull’argomento. In base a questa norma, non vi è dubbio che l’agente della riscossione, ben qualificabile dogmaticamente quale sostituto processuale dell’ente impositore, è in ogni caso legittimato, in proprio, per le liti contro di lui promosse che riguardano esclusivamente la regolarità e la validità degli atti esecutivi ed è straordinariamente legittimato, quale sostituto processuale dell’ente impositore, per le liti che non riguardano esclusivamente la regolarità o la validità degli atti esattivi, fermo in quest’ultimo caso l’obbligo [peraltro solo a livello di rapporti interni tra agente della riscossione ed ente impositore] da parte dello stesso agente della riscossione di chiamare in causa l’ente impositore”.

[6] Cass. Trib. nr. 18651 del 3 settembre 2014

[7] Ex multis: Corte di Cassazione Sezioni Unite sentenza n. 16412 del 25 luglio 2007; Corte di Cassazione Sezioni Unite sentenza n. 5791 del 4 marzo 2008; Corte di Cassazione Sezioni Unite sentenza n. 2879 del 16 dicembre 2020; Corte di Cassazione ordinanza n. 16685 del 21 giugno 2019; Corte di Cassazione sentenza n. 2480 del 4 febbraio 2020; Corte di Cassazione sentenza n. 3238 dell’11 febbraio 2020; Corte di Cassazione Ordinanza  n. 28561 del 13 maggio 2021; Cassazione sentenza n. 28668  del 3 ottobre 2022.

[8] L’Agenzia delle Entrate in questo caso è parte del giudizio come sostituto processuale dell’ente creditore, ai sensi dell’art. 81 c.p.c., applicabile al processo tributario (Cass. ord. n. 24789 del 9 ottobre 2018)

[9] Il giudice dovrà ordinare l’integrazione del contraddittorio solo nel caso cause inscindibili ex art. 331 c.p.c. 

[10] Art. 331 c.p.c.

[11] Laddove recita che “Possono intervenire volontariamente o essere chiamati in giudizio i soggetti che, insieme al ricorrente, sono destinatari dell’atto impugnato o parti del rapporto tributario controverso”

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