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La Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Siracusa, Sezione 5, Sentenza n. 3882/2022 del 30 settembre 2022, depositata il 23 novembre 2022 – Presidente e Relatore dott. Alberto Leone.

Fatti di Causa

Con atto notificato a mezzo PEC inoltrata il 07.05.2021 la M.. S.r.l., con sede in A. c.da C., in persona del suo legale rappresentante pro tempore, ha proposto ricorso contro l’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Siracusa, chiedendo l’annullamento dell’avviso di accertamento n. omissis ricevuto in data 11 marzo 2021 e relativo a maggiore IRES, IVA ed IRAP anno d’imposta 2015, oltre sanzioni ed interessi per un importo complessivo di € 11.027.359,85.
Ha premesso di esercitare la sua attività nel settore degli olii minerali, sia attraverso il commercio all’ingrosso e al dettaglio di tali prodotti, sia soprattutto nella gestione di depositi fiscali, che era quella che produceva più fatturato e per la quale era titolare di licenza per l’esercizio di un deposito commerciale per la custodia di tali beni (carburanti e prodotti energetici soggetti ad accisa), per conto proprio e di terzi.
Più specificatamente evidenziava che in forza di detta licenza esercitava sia il c.d. Deposito Doganale, regolato dall’art. 5 e seguenti del D. Lgs. n. 504 del 26.10.1995, che il c.d. Deposito Iva, regolato invece dall’art. 50 bis, del D.L. n. 331/1993, convertito in L. 427/93.

Il primo è assoggettato ad una disciplina comune armonizzata a livello comunitario e consente al gestore di poter sospendere il pagamento dell’accisa fino al momento dell’estrazione del prodotto dal deposito per la distribuzione ai terzi; il secondo regime, invece, introdotto nel nostro ordinamento con legge 28/1997, è previsto dal menzionato art. 50-bis nel D.L. 331/93 il quale così dispone: “Sono istituiti, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, speciali depositi fiscali, in prosieguo denominati “depositi IVA”, per la custodia di beni nazionali e comunitari che non siano destinati alla vendita al minuto nei locali dei depositi medesimi”. Questi Depositi IVA consentono al gestore di introdurvi gli oli minerali, di farveli stazionare, di trasferirli in altro deposito in regime di esenzione Iva e di assoggettarli all’imposta solo da parte dell’acquirente finale al momento dell’estrazione.
Secondo quanto previsto con Circolare Agenzia delle Entrate n. 12/E del 24 Marzo 2015, la ratio della previsione normativa è quella di evitare il versamento dell’IVA nel caso di cessioni effettuate tra due soggetti d’imposta nazionali” cosicché “il semplice trasferimento dei beni da un deposito Iva ad un altro non costituisce momento di estrazione dal deposito, anche qualora il trasferimento avvenga in dipendenza della revoca di autorizzazione a gestire l’impianto nei confronti del depositario”.
La principale funzione dei depositi Iva, quindi, è sostanzialmente quella di “congelare” l’applicazione dell’imposta per tutte le operazioni aventi ad oggetto i beni ivi introdotti, per tutto il periodo in cui gli stessi rimangono giacenti all’interno del deposito. Fino a tale momento, infatti, l’imposta rimane “sospesa” a con-dizione che i beni, pur subendo trasferimenti, lavorazioni e prestazioni di servizi, continuino a rimanere custoditi all’interno del deposito.
Tanto premesso, la società ricorrente ha evidenziato che la ripresa a tassazione operata dall’Ufficio concerneva sia maggiori imposte dirette Ires e Irap, scaturenti dalla ripresa a tassazione di costi per ammortamenti su beni strumentali, che secondo la prospettazione dell’A.F. sarebbero stati indebitamente detratti per mancata esibizione delle fatture originarie ovvero, nel caso degli impianti, in misura maggiore rispetto a quanto spettante dalle tabelle ministeriali, sia una maggiore Iva in riferimento ad acquisti effettuati nell’anno 2015 in sospensione d’imposta, non avendo inizialmente riscontrato il requisito dello “status” di “esportatore abitua-le” (che si ottiene quando l’impresa nell’anno precedente abbia effettuato operazioni non imponibili per un ammontare superiore al 10 per cento del proprio volume d’affari, secondo quanto previsto dagli art. 8, 8 bis, 9, del d.p.r. 633/72 e art. 41, d.l. 331/93) e comunque in eccesso rispetto al plafond disponibile.
Ciò nonostante che la ricorrente, in risposta ad un invito all’accertamento con adesione proposto dall’Ufficio, avesse fatto presente con apposita memoria che la società non era un esportatore abituale, bensì un ente di gestione di depositi fiscali (doganale e Iva) ed in quanto tale, già prima dell’anno 2015 gli era stato riconosciuto il diritto ai sensi dell’art. 50-bis, comma 4, lett. d) e lett. i), del D.L. n. 331/93, nel testo vigente ratione temporis di poter beneficiare della sospensione del pagamento dell’IVA sulle fatture d’acquisto relative ai carburanti e olii minerali e che, conseguentemente, il pagamento dell’imposta era stato assolto all’atto dell’estrazione degli olii minerali, con la sola esclusione delle fatture emesse per i carburanti destinati ad esse-re impiegati
nei “pescherecci”, per i quali nelle relative fatture era stata indicata la dicitura “non imponibile iva ai sensi degli artt. 8, 8 bis e 9 del D.P.R. 633/72”.
Trattandosi, pertanto, di fatture d’acquisto sulle quali non era stata addebitata l’Iva, in quanto operazioni effettuate da un gestore di deposito fiscale e di conseguenza non essendo stata
esercitata alcuna detrazione d’imposta in quanto interamente versata all’atto dell’estrazione del prodotto dal deposito fiscale, non era ravvisabile alcuna evasione d’imposta, nè danno erariale
per lo Stato.
In ogni caso l’Ufficio aveva anche errato il calcolo per l’attribuzione dello status di esportatore abituale, avendo escluso dal conteggio relativo alla determinazione del requisito del 10 per cento, le operazioni non imponibili ex art. 8 bis del D.p.r. n. 633/72, le quali se considerate (€ 5.818.520,78) avrebbero determinato un rapporto dell’11,23 per cento.
Pur tuttavia, l’Agenzia delle Entrate notificava l’atto impugnato col quale effettuava il ricalcolo della determinazione del requisito del 10 per cento, ritenendo questa volta che la società avesse lo status di “esportatore abituale”, calcolava il c.d. plafond disponibile in euro 5.818.520,00, rilevava che le operazioni relative agli acquisti in sospensione d’imposta avevano superato tale plafond nella misura di euro 22.652.442, calcolava l’Iva dovuta in euro 4.983.537,00 e rettificava il reddito dichiarato nell’anno 2015, calcolando maggiori imposte ai fini Ires e Irap nella misura rispettivamente di euro 78.286,00 ed euro 13.722,00.
Quanto alla richiesta di pagamento dell’Iva sugli acquisti, l’Ufficio aveva ritenuto che l’emissione da parte del-la società della “lettera di intento” ai fornitori (omissis) utilizzata per l’acquisto di carburanti, fosse di per sé sola idonea a configurare la società ricorrente come esportatore abituale (ricorrendo i presupposti stabiliti dall’art. 1, del D.L. n. 746/1983) e che la mera gestione del deposito Iva non fosse rilevante ai fini della sospensione del pagamento dell’Iva sugli acquisti.
Quanto al recupero a tassazione del costo degli ammortamenti, l’Agenzia aveva affermato che dall’esame del registro dei beni ammortizzabili risulterebbero ammortamenti effettuati in misura superiore a quelli fiscalmente consentiti e nello specifico: -Ammortamento eseguito su beni per i quali non sarebbe stata riscontrata alcuna fattura d’acquisto o elementi idonei a suffragarne la prova dell’acquisto del bene; -Ammortamento effettuato sui fabbricati al lordo dello scorporo dell’area occupata quantificata nella misura del 30%; -Ammortamento effettuato sugli impianti fotovoltaici, effettuato in misura maggiore rispetto alla quota consentita per i fabbricati del 3%, giacché secondo l’ufficio, trattandosi di impianti considerati beni immobili, l’aliquota di ammortamento sarebbe dovuta essere quella applicata per i beni immobili.
Tale accertamento era illegittimo per i seguenti motivi:
1) violazione dell’art. 50 bis D.L. 331/1993 nel testo vigente ratione temporis e falsa applicazione delle norme che regolano lo status di esportatore abituale;
2) erroneo recupero del costo degli ammortamenti;
3) violazione delle garanzie riconosciute al contribuente dall’art. 12 legge 212/2000.

Chiedeva, pertanto, l’accoglimento delle domande proposte con vittoria di spese e compensi e, in via caute-lare, la sospensione urgente dell’atto impugnato ex art. 47 comma 3 d.lgs. 546/92.
L’Agenzia delle Entrate si è costituita replicando analiticamente alle spiegate censure e richieste, perorandone il rigetto.
Con successiva ed articolata memoria la ricorrente ha replicato alle avverse osservazioni ed insistito in do-manda.
Con decreto reso in data 11.05.2022 è stata concessa la sospensione cautelare del provvedimento impugnato. All’odierna udienza il ricorso è stato discusso e posto in decisione.

Motivi della Decisione

1. Per ragioni logico-sistematiche va innanzitutto affrontata la terza delle eccezioni proposte dalla parte ricorrente, attinente alla ipotizzata illegittimità dell’avviso di accertamento impugnato poiché emesso senza l’adozione e/o in violazione delle garanzie previste dall’art. 12 dello
Statuto dei Diritti del contribuente di cui alla legge 212/2000.
La censura non sembra, ad avviso di questo Collegio, cogliere nel segno. Ed invero, per quanto concerne i doveri di preventiva informazione previsti dal comma 2 della norma in esame, giova rilevare che per costante indirizzo giurisprudenziale (cfr. per tutte Cass. Civ. n. 992/2015) l’inosservanza di tali formalità determina la nullità degli atti della procedura nei soli casi in cui l’effetto invalidante sia espressamente previsto dalla legge, mentre, negli altri casi, occorre valutare, anche alla luce dell’interpretazione offerta dalla giurisprudenza europea, che impone di verificare se la prescrizione normativa si riferisca ad una formalità o circostanza essenziale per il raggiungimento dello scopo cui l’atto è preordinato, se la violazione di legge abbia comportato la mera irregolarità dell’atto (o della procedura), ovvero sia idonea a determinare l’invalidità dello stesso.
Nel caso in esame, nel quale il confronto preventivo fra Ufficio e società contribuente è stato assai articolato e serrato, la prospettata violazione non sembra potersi collegare ad una specifica nullità dell’iter procedimentale, normativamente dettata dal legislatore, mentre in concreto il suo esame lascia trasparire in ipotesi una mera irregolarità, che non appare in alcun modo inficiare l’esito dell’accertamento.

Per quanto concerne il mancato rispetto del termine fissato dal successivo comma 7° è dirimente osservare che tale disposizione, che prescrive che “dopo il rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, il contribuente possa comunicare entro sessanta giorni osservazioni e richieste che sono valutate dagli Uffici impositori” e che conseguentemente “l’avviso di accertamento non può essere emanato prima della scadenza del predetto termine, salvo casi di particolare e motivata urgenza”, si applica solo nella
ipotesi di accessi, ispezioni e verifiche effettuate nei locali destinati all’esercizio delle attività d’impresa, e non anche ove l’accertamento sia stato compiuto a “tavolino” (cfr. Cass. SS.UU. Civ. n. 18184 del 29 luglio 2013). Nel caso in esame è incontroversa la circostanza che l’accertamento fiscale dell’Ufficio non ha comportato accessi, ispezioni o verifiche nei locali dell’azienda verificata,
ma solo riscontri interni posti in essere dall’Agenzia delle Entrate sulla base della documentazione chiesta e prodotta dalla verificata.
La censura, pertanto, non appare meritevole di essere accolta.
2. Il motivo di ricorso sul quale si è incentrata la maggiore contraddizione fra le tesi rispettivamente sostenute dai contradditori, è sicuramente quello inerente al negato riconoscimento da parte dell’Ufficio della gestione in capo alla società ricorrente di un deposito IVA che consente, a certe condizioni e come si è già detto in premessa, di poter detenere oli minerali acquistati in regime di esenzione dalle accise sino alla sua estrazione finale. Sulla predetta questione si scontrano due tesi non facilmente conciliabili.
La prima, più formale, sostenuta dall’Amministrazione Finanziaria che nega nel caso concreto tale evenienza per le seguenti ragioni: 1) non vi è stata alcuna comunicazione di adozione del deposito fiscale ai fini accisa come deposito Iva ex art. 50- bis; 2) non sono state esibite le autofatture
(integrazioni di fatture) per le estrazioni dal deposito per l’assolvimento dell’IVA; 3) non è stato presentato il registro deposito IVA dove si evince la registrazione delle autofatture di estrazione;
4) non sono state indicate le operazioni effettuate con reverse charge e per le estrazioni dal deposito IVA nel quadro VJ della dichiarazione IVA (rigo VJ2 nella Dichiarazione IVA per l’esercizio 2015). E poiché non risulterebbe provato il versamento dell’IVA all’estrazione, la società si è arricchita del corrispondente importo a danno dello Stato. Le accertate modalità di acquisto
degli oli minerali presso società importatrici o di raffinazione, attraverso rilascio di preventive “lettere di intento” dimostrerebbero, inoltre, la bontà della ipotizzata evasione IVA, atteso che tale sistema viene adoperato nei soli casi di “esportatore abituale”, assoggettato al diverso regime di esenzione IVA entro precisi limiti stabiliti attraverso il riconoscimento di una plafond massimo,
che nel caso concreto sarebbe stato di gran lunga superato dalla ricorrente nell’anno 2015, con conseguente recupero dell’IVA non versata per la parte eccedente tale limite. Ulteriore elemento che deporrebbe per tale tesi è che non risulta provato che i cedenti degli oli minerali gestissero dei depositi fiscali, con la inevitabile conseguenza che l’acquisto di tali beni da parte della odierna ricorrente doveva ex se essere sottoposto immediatamente ad IVA.
La seconda, più sostanziale, reclamata dalla società contribuente, fa invece leva su alcuni elementi di fatto che depongono per il riconoscimento della gestione nel 2015 da parte sua di un deposito IVA: 1) tutti gli acquisti sono stati effettuati presso depositi fiscali e gli oli minerali sono stati esclusivamente trasferiti presso il suo deposito, fino a quando non sono stati
estratti e ceduti agli acquirenti finali, con versamento dell’imposta dovuta, senza alcuna possibilità di evasione, stante che tutte le operazioni sono state corredate dall’utilizzo del modello di accompagnamento del trasporto (c.d. modello e-AD) indispensabile per la circolazione dei prodotti energetici tra depositi fiscali e dal quale è agevolmente riscontrabile che si è sempre trattato
di trasporto di carburanti da un deposito all’altro; 2) tutte le operazioni predette sono state scrupolosa-mente contabilizzate nel relativo registro, acquisito dall’Ufficio nel contesto della separata verifica iniziata per l’anno d’imposta 2016 e poi sospesa per la pandemia da COVID e quindi già in suo possesso; 3) a nulla rilevava il rilascio della “dichiarazione d’intenti” al fine di dimostrare l’applicazione del diverso regime previsto per gli “esportatori abituali”, atteso che tale documento, poi normativamente abolito, era stato impropriamente richiesto dalle società richiedenti (a tale riguardo ha prodotto il testo di alcune mail pervenutele), stante che l’intero carburante acquistato era stato immesso nel proprio deposito IVA e l’accisa era stata assolta al momento dell’estrazione.
Ritiene questa Corte di poter aderire alla tesi propugnata dalla parte ricorrente, più aderente alla rilevata ratio normativa che consente, attraverso la gestione del Deposito IVA, trasferimenti di
oli minerali fra due soggetti d’imposta nazionali” in esenzione d’imposta, valutando tale trasferimento dei beni da un deposito Iva ad un altro un momento che non costituisce estrazione dal
deposito, limitata, piuttosto, alla consegna della merce al consumatore finale. Depone per la bontà di tale visione concreta dell’attività posta in essere dalla società ricorrente, non solo il dato formale che nonostante fosse stata sottoposta nel passato a continui controlli da parte dell’Ufficio delle Dogane e dalla Guardia di Finanza, mai nessuno aveva obiettato alcunché al riguardo
del regime fiscale adoperato del deposito IVA, ma soprattutto la circostanza che in effetti attraverso i prodotti modelli F24 v’è la prova concreta che in effetti l’IVA è stata versata allo Stato al momento della estrazione finale della merce, senza danno alcuno per lo Stato.
Il motivo, pertanto, va accolto, con annullamento in parte qua dell’avviso di accertamento.
3. Relativamente al recupero a tassazione del costo degli ammortamenti fiscali operati dalla società, va rilevato che già nella fase di verifica l’Ufficio ha rideterminato tale ripresa sulla base dei costi effettivamente documentati dalla odierna parte ricorrente e che sulla accertata differenza nulla è stato obiettato, con evidente acquiescenza al riguardo.
In merito alla percentuale di ammortamento dedotta per la realizzazione di tre diversi impianti fotovoltaici, pretesa dalla società nella percentuale del 9% e riconosciuta dall’Ufficio nella minor
misura del 3%, , con ripresa a tassazione della differenza, va ritenuto ragionevole, in difetto di ben specifica previsione normativa che regola la fattispecie, l’operato dell’Ufficio che, fondando il proprio assunto sulla circostanza oggettiva che tali impianti sono stati realizzati sul tetto di immobili sociali, sono stati considerati strettamente inerenti agli stessi, così giustificando l’applicazione della percentuale di ammortamento prevista per i beni immobili, pari appunto al 3%.
4. La complessità e specificità della fattispecie giustifica la compensazione delle spese del giudizio.

P.M.Q.

La Corte di Giustizia Tributaria di Primo Grado di Siracusa, sezione quinta, accoglie il ricorso limitatamente all’IVA pretesa con l’avviso di accertamento impugnato e lo rigetta nel resto. Compensa le spese.

Commento della Sentenza

La Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Siracusa, in materia di sospensione dell’Iva nei trasferimenti tra due depositi fiscali di prodotti petroliferi soggetti ad accise, ha preso una posizione netta riguardo alla legittimità della fatturazione in sospensione d’imposta, ritenendo che l’utilizzo improprio della dichiarazione d’intento sia irrilevante, non generando di per sé l’inquadramento della società acquirente tra i soggetti definiti quali “esportatori abituali” sottoposti ai limiti del plafond disponibile. Con la propria decisione, la Corte ha dato atto del fatto che il regime di sospensione nei trasferimenti di prodotti tra due depositi fiscali rappresenta il regime naturale previsto dall’art. 50-bis, comma 4, lett. i) del D.L. n. 331/1993.

Il Caso

La questione riguarda un accertamento fiscale relativo all’anno 2015 effettuato dall’Agenzia delle Entrate a carico della società M. srl, che gestisce un deposito fiscale di prodotti soggetti ad accise (carburanti). L’A.F., a causa dell’epidemia da Covid-19, sospendeva la verifica fiscale avviata nel corso dell’anno 2020 a carico della società M.srl per l’anno 2016 e, trascorsi quattro mesi dalla data di sospensione e senza alcuna comunicazione di una eventuale ripresa dei lavori,notificava alla società l’avviso di aver avviato un accertamento fiscale per l’anno 2015. Dopo aver completato l’attività istruttoria, l’Agenzia delle Entrate concludeva con l’emissione dell’accertamento fiscale. L’A.F. ignorava volutamente che la società gestisse un deposito fiscale e che effettuava operazioni d’acquisto da altri depositi fiscali corredate dal documento amministrativo elettronico (e-AD) emesso dai sistemi elettronici dell’Agenzia delle Dogane, in regime di sospensione dell’Iva ex art. 50-bis, comma 4, lett. d) ed i) del D.L. n. 331/1993. L’A.F. qualificava la società come “esportatore abituale”, giacché le operazioni d’acquisto del carburante erano provviste della “dichiarazione d’intento”, procedendo alla verifica del c.d. plafond disponibile, rilevandone il superamento ed effettuando il recupero dell’Iva corrispondente (sugli acquisti). Il recupero dell’Iva sugli acquisti rappresentava di per sé una duplicazione d’imposta, atteso che l’Iva veniva versata dalla società (deposito fiscale) all’estrazione, come previsto dall’Art. 50-bis, comma 6, del D.L. 331/1993.

Depositi fiscali degli olii combustibili e regime Iva

Tralasciando le questioni relative alla rideterminazione degli ammortamenti deducibili e alle questioni legate al modus operandi dell’Agenzia delle Entrate, in riferimento all’accertamento fiscale
in presenza di una verifica operata dallo stesso ufficio finanziario, dove la Corte di Siracusa non ha accolto le domande della società, la sentenza in commento si rende interessante per la parte inerente ai depositi fiscali, all’uso della dichiarazione d’intento nel settore dei carburanti ed alla sua rilevanza riguardo alla legittimità della sospensione dell’Iva nel caso in cui le transazioni ed il trasferimento del prodotto soggetto ad accise avvengono tra due depositi fiscali.

Regime fiscale dei depositi

I regimi di deposito regolamentati dall’Ue sono riconducibili a due istituti principali: i Depositi Doganali ed i Depositi Fiscali, entrambi utilizzabili anche come Deposito Iva. I primi costituiscono un regime doganale vero e proprio, il quale è assoggettato ad una disciplina comune armonizzata a livello comunitario, dove è possibile godere della possibilità di sospendere il pagamento dei dazi doganali e dell’Iva sui beni importati da Paesi extra-Ue. I Depositi doganali costituiscono un regime speciale sospensivo che consente alle merci extra-Ue di essere immagazzinate all’interno del territorio doganale dell’Unione Europea, godendo della sospensione dei dazi e dell’applicazione delle altre misure tributarie ed extratributarie gravanti sulle merci. L’Istituto si intreccia con quello dei Depositi Iva, il quale è regolato dall’art. 50-bis del D.L. n. 331/1993. I Depositi Fiscali, invece, si configurano come quelle strutture autorizzate dalle autorità doganali a trasformare, detenere, ricevere o spedire merci comunitarie e/o normalmente sottoposte ad accise, ma per le quali è stato applicato un regime di sospensione dei diritti di accise e di IVA fino al momento dell’estrazione del prodotto dal deposito. Tale autorizzazione viene concessa dall’amministrazione finanziaria in accordo con le procedure indicate da diverse fonti normative.
Le norme che regolano la disciplina del regime delle accise e dei Depositi Fiscali sono contenute nel Testo Unico Accise, D.Lgs. n. 504/95. Al Testo Unico Accise, sono seguiti la legge n. 205/2017, la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 18 del 7 agosto 2019 e la Risoluzione dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli 1/D/2019 del 10 maggio. I depositi fiscali per i prodotti soggetti ad accise già autorizzati dall’autorità doganale assumono anche la qualifica di depositi Iva senza ulteriori licenze. I titolari di depositi fiscali per i prodotti soggetti ad accise e di depositi doganali sono abilitati ad esercitare anche come i Deposito Iva previa comunicazione indirizzata alla Direzione Regionale delle Entrate territorialmente competente in relazione al luogo di dislocazione del deposito. I Depositi Iva sono stati introdotti nel nostro ordinamento dalla Legge 28/1997 (che aveva recepito la Direttiva 95/7/ CE) con l’inserimento di una norma dedicata e rubricata depositi fiscali ai fini Iva e si differenziano dai Depositi Doganali in quanto ospitano merce intracomunitaria. Il riferimento è all’art. 50-bis nel D.L. 331/93 il quale al comma 1, dà la definizione dei depositi Iva e delle imprese che possono esercitarne l’attività: “Sono istituiti, ai fini dell’imposta sul valore aggiunto, speciali depositi fiscali, in prosieguo denominati “depositi IVA”, per la custodia di beni nazionali e comunitari che non siano destinati alla vendita al minuto nei locali dei depositi medesimi. Sono abilitate a gestire tali depositi le imprese esercenti magazzini generali munite di autorizzazione doganale, quelle esercenti depositi franchi e quelle operanti nei punti franchi” (Cfr. D.M. n. 419/1997). I Depositi Iva sono pertanto luoghi fisici situati nel territorio dello “Stato italiano” all’interno dei quali la merce viene introdotta, vi staziona, e poi viene estratta. In particolare il sistema del Deposito Iva consente che, per determinate operazioni effettuate mediante introduzione dei beni nel deposito, l’IVA, ove dovuta, sia assolta dall’acquirente finale solo al momento dell’estrazione (Circolare Agenzia delle Entrate n. 12/E del 24 Marzo 2015
– 1. Premessa). La stessa Circolare dell’Agenzia delle Entrate, oltre a dare una definizione della qualifica di deposito Iva, riconoscendo tali quelli già autorizzati dall’autorità doganale (par. 2 Depositi Iva; par. 4. Soggetti abilitati alla gestione dei depositi), definisce nell’ambito del comma 4, dell’art. 50 bis, del D.L. 331/93, l’elenco delle operazioni che possono essere effettuate senza il pagamento dell’imposta (IVA) e, in particolare ai paragrafi 5.1.4 e 5.2.3, si occupa delle interpretazioni da dare rispettivamente alla lettera d) affermando che “la ratio della norma è quella
di consentire la non applicazione dell’imposte alle cessioni effettuate tra due soggetti d’imposta nazionali” e la lettera i) dell’art. 50 bis, affermando che “il semplice trasferimento dei beni da un deposito Iva ad un altro non costituisce momento di estrazione dal deposito, anche qualora il trasferimento avvenga in dipendenza della revoca di autorizzazione a gestire l’impianto nei confronti del depositario”. La principale funzione dei Depositi Iva è sostanzialmente quella di “congelare” l’applicazione dell’imposta per tutte le operazioni aventi ad oggetto i beni ivi introdotti, per tutto il periodo in cui gli stessi rimangono giacenti all’interno del deposito.
Fino a tale momento, infatti, l’imposta rimane “sospesa” a condizione che i beni, pur subendo trasferimenti, lavorazioni e prestazioni di servizi, continuino a rimanere custoditi all’interno del deposito.

Utilizzo improprio delle Dichiarazioni di Intento nelle cessioni di carburante tra depositi fiscali (Iva)

Nel settore dei carburanti era diffusa la consuetudine, tra le imprese titolari di depositi fiscali, di utilizzare la “dichiarazione d’intento” per l’acquisto ed il trasferimento dei carburanti tra due depositi Iva. Solo nel 2017, con l’introduzione dell’art. 1, commi 937-944 della Legge n. 205/2017, ne è stato abrogato l’uso per gli acquisti di prodotti petroliferi (comma 941-bis), limitandone l’impiego alle imprese operanti nei settori elencati all’art. 24-ter del D. Lgs. n. 504/1995 (autotrasporto) e confermando altresì che le cessioni di prodotti petroliferi che intervengono durante la loro custodia nei depositi fiscali avvengono senza il pagamento dell’imposta (comma 939).
Gli acquisti in sospensione d’imposta sono previsti dall’art. 50-bis comma 4, lett. i) dove è espressamente stabilito che “Sono effettuate senza pagamento dell’imposta sul valore aggiunto le seguenti operazioni … lett. i) il trasferimento dei beni in altro deposito IVA” e pertanto non sono sottoposti né allo status di esportatore abituale, né al vincolo del c.d. plafond.
Sempre nell’anno 2017 (a decorrere dal 1° luglio 2017), l’amministrazione finanziaria, al fine di identificare le operazioni derivanti dal pagamento dell’Iva per l’immissione in consumo dei
prodotti estratti dal deposito fiscale o per l’estrazione dal deposito di un destinatario registrato, di cui all’art. 1, comma 937, della legge n. 205 del 2017 e l’Iva per l’estrazione dei beni dal deposito Iva, ha introdotto un nuovo modello di pagamento per l’Iva all’estrazione denominato modello “F24 ELIDE”. Purtuttavia, l’Agenzia delle Entrate, per il solo fatto che le transazioni commerciali tra i depositi fiscali siano state effettuate con l’utilizzo della “dichiarazione d’intento” per supportare la sospensione del pagamento dell’Iva, sebbene si trattasse di un documento non necessario, ha qualificato la società accertata (deposito fiscale) quale “esportatore abituale”, procedendo al calcolo del plafond disponibile e recuperando così l’Iva scaturente dall’importo che eccedeva il plafond.
L’Ufficio finanziario non ha tenuto conto neanche che lo stesso legislatore, resosi conto dell’uso improprio della dichiarazione d’intento nel settore dei carburanti, sia intervenuto con
l’introduzione dell’art. 1, commi 937-944 della Legge n. 205/2017 .

Dichiarazione d’Intento e Status di Esportatore abituale

Il D.L. n. 746/1983 ha circoscritto l’ambito di emissione delle dichiarazioni d’intento nelle operazioni d’acquisto, collegati all’attività dell’impresa emittente quale esportatore abituale al fine di poter effettuare acquisti con la non imponibilità IVA di cui all’art. 8, 1° comma, lett. c) del DPR n. 633/1972, stabilendo altresì dei limiti attraverso il c.d. plafond.
Si acquisisce lo status di esportatore abituale quando la percentuale derivante dal rapporto tra l’ammontare dei corrispettivi delle cessioni all’esportazione, delle operazioni assimilate, dei
servizi internazionali e delle operazioni intracomunitarie, registrate nell’anno solare precedente o nei dodici mesi precedenti e il relativo volume d’affari, determinato a norma dell’art. 20 del D.P.R. n. 633/1972, sia superiore al 10% . Il processo per poter fruire di tale agevolazione avviene attraverso l’emissione della c.d. “dichiarazione o lettera d’intento”, a cura dell’esportatore che deve consegnare al proprio fornitore e trasmetterla telematicamente all’Agenzia delle Entrate anteriormente all’emissione della fattura (da parte del fornitore) in regime di non imponibilità.
La verifica dello status di “esportatore abituale” avviene confrontando all’interno della dichiarazione Iva l’importo delle operazioni non imponibili indicate nel rigo VE30 con il totale del volume d’affari di cui allo stesso quadro VE, quest’ultimo al netto delle operazioni fuori campo Iva con obbligo di fatturazione, il cui importo deve essere inserito nel rigo VE34. In particolare, se il totale del rigo VE30 è maggiore del 10% del volume d’affari “netto” (VE40 meno VE34), il soggetto passivo è considerato “esportatore abituale” e l’anno successivo può acquistare beni e servizi senza applicazione dell’Iva, previa presentazione della “dichiarazione d’intento”, nei limiti delle operazioni non imponibili indicate nel rigo VE30 (plafond). Orbene, nel caso in cui il diritto ad effettuare gli acquisti in sospensione d’imposta derivi dalla condizione soggettiva dell’impresa, perché trattasi di operatore qualificato come “deposito fiscale”, l’emissione delle “dichiarazioni d’intento”,
sebbene non prescritte, non determina per ciò stesso alcuna infrazione, atteso che la sospensione d’imposta non dipende dall’entità di eventuali esportazioni, né dal plafond, ovvero dalla stessa emissione e consegna della lettera d’intento al fornitore. A ciò si aggiunga che il legislatore, probabilmente per mettere fine all’uso improprio della dichiarazione d’intento nel settore dei carburanti, soprattutto da parte dei grossi gruppi industriali, ne ha abrogato l’uso per gli acquisti di prodotti petroliferi, limitando l’impiego alle imprese operanti nel settore degli autotrasporti e confermando altresì che le cessioni di prodotti petroliferi che intervengono durante la loro custodia nei depositi fiscali avvengono senza il pagamento dell’imposta. In buona sostanza, trattasi di violazione meramente formale, non avendo recato alcun pregiudizio all’esercizio dell’azione di controllo dell’Agenzia delle Entrate, la quale con l’introduzione dell’art. 1, comma 381, della L. n. 311/2004, che ha modificato il D.L. n. 746/1983, ha la disponibilità immediata delle dichiarazioni d’intento, in adempimento dell’obbligo di inviarle per via telematica entro il giorno 16 del mese successivo, e può certamente accertare l’operato della società.

Il percorso argomentativo del giudice: la pronuncia della Corte

La Corte di Giustizia parte da un distinguo tra l’aspetto formale sostenuto dall’Amministrazione Finanziaria e quello sostanziale reclamato dalla società.
La Corte, ritenendo non rilevanti le argomentazioni dell’Agenzia concentrate sulle modalità di acquisto degli oli minerali attraverso il rilascio delle “lettere d’intento”, le quali verrebbero utilizzate soltanto nei soli casi di “esportatore abituale”, assoggettati ad un diverso regime di sospensione dell’Iva entro certi limiti stabiliti dal plafond massimo, ha ritenuto invece rilevanti gli elementi forniti dalla difesa in merito alla circostanza che trattandosi di operazioni effettuate tra depositi fiscali, gli acquisti potevano essere effettuati in sospensione d’imposta senza alcun limite.
Il Collegio nel caso in specie, entrando nel merito della controversia ha fatto buon governo nella valutazione degli elementi di prova forniti dalla difesa e delle norme che regolano i Depositi Iva. I giudici hanno ribadito che le modalità operative adottate dalla società apparivano più aderenti alla ratio della normativa che regola i Depositi Iva, sottolineando che i trasferimenti di oli minerali tra soggetti d’imposta nazionali, entrambi titolari di depositi fiscali, non costituisce estrazione dal deposito ai sensi dell’art. 50-bis, comma 6, del D.L. n. 331/1993, la quale estrazione si configura invece nel momento della loro utilizzazione finale o in esecuzione di atti di commercializzazione nello Stato, comportando per ciò il pagamento dell’imposta entro il giorno 16 del mese successivo con divieto di compensazione.

La Corte ha pertanto definitivamente sgombrato l’idea che l’utilizzo improprio della dichiarazione d’intento possa compromettere il regime naturale esistente per i Depositi Iva, i quali, nel momento in cui operano con altri depositi Iva, possono godere della possibilità, senza limiti o plafond disponibili, della sospensione dell’Iva, che sarà pagata all’atto dell’estrazione dal deposito per essere commercializzata.
Singolare appare altresì, nel caso in specie, la richiesta del versamento dell’Iva sugli acquisti della società, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, giacché il pagamento avrebbe comportato una duplicazione dell’Iva, contrario ai principi di neutralità imposti dalla IV^ Direttiva CEE del 20 dicembre 1971.
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) ha più volte ricordato, nella sua giurisprudenza, che il sistema delle detrazioni previsto dalla direttiva 77/388 e dalla direttiva 2006/112 è inteso ad esonerare interamente l’imprenditore dall’IVA dovuta o assolta nell’ambito di tutte le sue attività economiche.
In tal senso, il sistema comune dell’IVA è inteso a garantire la perfetta neutralità dell’imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dallo scopo o dai risultati di dette attività, purché queste siano, in linea di principio, a loro volta soggette all’IVA .
La Corte sottolinea altresì che, sebbene gli Stati membri possano adottare provvedimenti in forza dell’articolo 273 della direttiva 2006/112 per assicurare l’esatta riscossione dell’imposta ed evitare frodi, detti provvedimenti non devono tuttavia pregiudicare la neutralità dell’IVA .

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